L’attribuzione del cognome.

Era stata sollevata una questione di legittima costituzionale dal Tribunale di Bolzano, in ordine all’accordo di entrambi i genitori di attribuire soltanto il cognome materno. 

La Corte Costituzionale, investiva della questione pregiudiziale, ha ritenuto da un lato la non manifesta infondatezza considerando che: “è rilevabile nel contrasto della vigente disciplina, impositiva di un solo cognome e ricognitiva di un solo ramo genitoriale, con la necessità, costituzionalmente imposta dagli artt. 2 e 3 Cost., di garantire l’effettiva parità dei genitori, la pienezza dell’identità personale del figlio e di salvaguardare l’unità della famiglia;” atteso come si dubitava della legittimità costituzionale della disciplina dell’automatica acquisizione del cognome del padre, come previsto nell’art. 262, primo comma c.c., ossia che <<Se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il cognome del padre.>>. 

Che il Supremo Collegio riteneva che: “è stato osservato sin da epoca risalente che la prevalenza attribuita al ramo paterno nella trasmissione del cognome non può ritenersi giustificata dall’esigenza di salvaguardia dell’unità familiare, poiché «è proprio l’eguaglianza che garantisce quella unità e, viceversa, è la diseguaglianza a metterla in pericolo», in quanto l’unità «si rafforza nella misura in cui i reciproci rapporti fra i coniugi sono governati dalla solidarietà e dalla parità» (sentenza n. 133 del 1970); nel caso in esame, ancora una volta, «[l]a perdurante violazione del principio di uguaglianza “morale e giuridica” dei coniugi […] contraddice, ora come allora, quella finalità di garanzia dell’unità familiare, individuata quale ratio giustificatrice, in generale, di eventuali deroghe alla parità dei coniugi» (sentenza n. 286 del 2016);” ed anche che: “«la previsione dell’inderogabile prevalenza del cognome paterno sacrifica il diritto all’identità del minore, negandogli la possibilità di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome materno» (ancora sentenza n. 286 del 2016);”. 

Perciò, ritenendo come sussista il dubbio di legittimità costituzionale che investe l’art. 262, primo comma, c.c., il quale attiene anche alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 (Diritto al rispetto della vita privata e familiare) e 14 (Divieto di discriminazione) CEDU; ritenendo che dovessero essere risolte pregiudizialmente le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, c.c. (per il giudizio instaurato), nella parte in cui, in mancanza di diverso accordo dei genitori, impone l’automatica acquisizione del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi i genitori, per contrasto con gli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, ha sollevato, innanzi a sé, la questione di legittimità costituzionale. 

Attendiamo, considerato il mancato intervento legislativo sulla questione auspicato dal Supremo Collegio, della risoluzione della questione di legittimità costituzionale.  

Il diritto di riscatto.

La Corte di Cassazione in una recente pronunzia ha affermato un principio riguardante la cessione in proprietà per il riscatto di alloggi residenziali pubblici.

Si tratta del procedimento di cessione in proprietà, il quale è attivato con la presentazione della domanda di riscatto e si conclude con l’accettazione e la comunicazione del prezzo da parte dell’amministrazione all’assegnatario in locazione, come previsto dall’ultimo periodo del secondo comma dell’art. 27 della legge n. 513/1977, il quale prevede che:<<Si considera stipulato e concluso il contratto di compravendita qualora l’Ente proprietario o gestore abbia accettato la domanda di riscatto e comunicato all’assegnatario il relativo prezzo di cessione qualora non previsto per legge.>>

Questa disposizione è stata considerata non quale costituzione di un vincolo contrattuale ma, invece, è stata ritenuta quale momento in cui sorge il definitivo ed incontestabile riconoscimento del diritto dell’assegnatario a conseguire la cessione a seguito della stipula di un valido contratto privatistico di trasferimento, quale è quello previsto dall’art. 28 <<Il trasferimento della proprietà ha luogo all’atto della stipulazione del contratto; a garanzia del pagamento delle rate del prezzo di cessione l’ente cedente iscrive ipoteca sull’alloggio ceduto.>>.

Il punto controverso da risolvere è, a fronte di un diritto soggettivo pieno suscettibile di esecuzione forzata ai sensi e per gli effetti dell’art. 2932 c.c. (come già affermato con la sent. n. 5689/2015 della Suprema Corte), se nel periodo eventualmente intercorrente tra l’accettazione e la comunicazione dell’amministrazione e la stipula del contratto di cessione possano intervenire dei fatti impeditivi sopravvenuti (come la decadenza o la revoca dell’assegnazione) in forza di un potere di autotutela della pubblica amministrazione.

La Corte ha indicato come risoluzione della controversia che non sussiste tale potere in capo all’amministrazione atteso che, a seguito dell’accettazione della domanda di riscatto e della comunicazione del prezzo, l’amministrazione esaurisce le proprie valutazioni e da tale momento il diritto di godimento dell’alloggio si trasforma in un diritto soggettivo pieno al trasferimento della proprietà dello stesso, al punto tale che prima dell’atto traslativo, non può intervenire la decadenza o revoca per fatti sopravvenuti, ossia che: <<in tema di cessione in proprietà di alloggi residenziali pubblici, laddove il procedimento attivato con la presentazione della domanda di riscatto si concluda con l’accettazione e la comunicazione del presso (determinato ai sensi della l. n. 513 del 1977, art. 28), da parte dell’amministrazione, con conseguente riconoscimento definitivo del diritto dell’assegnatario al trasferimento della proprietà dell’alloggio, suscettibile di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c., si attua la trasformazione irreversibile del diritto al godimento dell’alloggio assegnato, condotto in locazione semplice, in diritto al trasferimento della proprietà dell’alloggio stesso, e, dovendosi presumere che l’esame dei requisiti soggettivi sia già stato effettuato dall’amministrazione, salvo il successivo atto pubblico di trasferimento della proprietà, non può intervenire, pima del suddetto atto traslativo, la decadenza dell’assegnazione in locazione, in relazione all’accertamento di determinati fatti sopravvenuti o scoperti successivamente da parte dell’amministrazione.>> (cfr. Cass. Civ. Sent. n. 3280/2021).

Il caso di specie è poi oltremodo interessante perché, oltretutto, era intervenuta la revoca malgrado fosse stato corrisposto dall’assegnatario il prezzo comunicato dall’amministrazione.

La gravità dell’inadempimento

In una recente pronunzia, il Tribunale della Spezia (sentenza n. 167/2020) ha considerato come anche per la locazione ad uso non abitativo, ancorché non si possa fare riferimento alla procedura del termine di grazia, la domanda di risoluzione del contratto di locazione debba essere considerata e valutata alla stregua della gravità dell’inadempimento ex art. 1455 c.c. (nel caso di specie l’inadempimento era dovuto alla chiusura per il periodo dell’emergenza pandemica).

Infatti, il Giudice considerando che la locazione era risalente nel tempo, che la morosità non era rilevante trattandosi soltanto di tre canoni relativi al periodo nel quale il Professionista aveva dovuto chiudere lo studio (odontoiatra) ed il pagamento dei canoni e delle spese legali fosse avvenuto dopo la notifica dell’atto di intimazione di sfratto, ha ritenuto di non accogliere la domanda e di non pronunziare la risoluzione per inadempimento del contratto di locazione non perché non sussistesse un inadempimento ma perché questo, considerati anche i canoni di buona fede e di correttezza, non poteva essere ritenuto grave.

Speriamo che questa sentenza non rimanga un caso isolato.

Il caso tik Tok

Il Garante della Privacy, dopo il decesso della bambina di dieci anni a Palermo avvenuto per asfissia a seguito della partecipazione della bimba ad una sfida su un social network, come da comunicato del 27 gennaio 2021, aveva avviato una istruttoria ed aveva disposto, d’urgenza, nei confronti del social Tik Tok il blocco immediato dei dati degli utenti per i quali non fosse stata accertata con sicurezza l’età anagrafica.

A quanto si è appreso, Tik Tok si è adeguata alle richieste del Garante prendendo alcuni impegni quali quello di rimuovere dal 9 febbraio 2021 tutti gli utenti al di sotto dei 13 anni, richiedendo la data di nascita per l’utilizzo della app, di avviare dei controlli e di avviare una campagna informativa rivolgendosi soprattutto ai genitori.

Comunque, l’Autorità, allo scopo di salvaguardare i minori, ha intrapreso una campagna, in collaborazione con telefono azzurro, allo scopo di richiamare i genitori ad avere un ruolo attivo di vigilanza e di prestare attenzione a quando verrà richiesta la data di nascita per l’accesso alla app di Tik Tok.

Alla luce di tutto questo e proprio perché l’attività di vigilanza dei genitori e di coloro che assistono i minori non deve mai venir meno, si è ritenuto di dare spazio a questa triste vicenda sperando che rimanga un tristissimo caso isolato.