Il farmaco difettoso.

La Corte di Cassazione, in una recente pronuncia, ha delineato la nozione del prodotto difettoso così com’è previsto dall’art. 117 del Codice del Consumo.

La Suprema Corte ha ritenuto che possa essere considerato difettoso non ogni prodotto genericamente insicuro ma, invece, quello che non raggiunga lo standard di sicurezza che il consumatore può legittimamente attendersi considerando una pluralità di elementi.

In particolar modo ha chiarito come il concetto di sicurezza sia connesso all’assenza o carenza di istruzioni ed è differente da quello di vizio del prodotto, di cui all’art. 1490 c.c., che può invece coincidere anche con un’imperfezione, che non ne determini la pericolosità per il consumatore.

Secondo la Suprema Corte, inoltre, il solo verificarsi di un danno non è necessariamente sintomo di pericolosità del prodotto, dal quale possa derivare la responsabilità del produttore, essendo necessario l’accertamento del mancato raggiungimento dei livelli minimi di sicurezza imposti dalla legge o richiesti dall’utenza.

Argomento estremamente interessante, considerato il periodo emergenziale che stiamo vivendo.

Il blocco degli sfratti.

Il Tribunale di Trieste con l’ordinanza del 24/04/2021 ha sollevato questione di legittimità costituzionale delle disposizioni che hanno previsto il blocco degli sfratti sino al 30 Giugno 2021.

In particolar modo, il Tribunale ha ritenuto che la normativa fosse irragionevole e contraddittoria laddove ha sospeso gli sfratti per morosità senza operare alcuna distinzione se l’inadempimento fosse anteriore al periodo di emergenza pandemica e che operi automaticamente senza alcuna verifica concreta delle condizioni di difficoltà economiche o finanziarie del conduttore.

Attendiamo con ansia la decisione della Consulta.

Atto di costituzione in mora.

Con una recente pronuncia la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto la sottoscrizione, nell’atto di costituzione in mora, un elemento essenziale senza del quale non può essere considerato l’atto quale scrittura privata produttiva di effetti giuridici, quale l’interruzione della prescrizione (cfr. Cass. Civ., sez. III, 07/05/2021, n. 12182).

Considerando che in tal caso non si verificherebbe l’effetto interruttivo della prescrizione è quanto meno opportuno inviare gli atti di costituzione in mora ma, soprattutto, sottoscriverli.

La gravità dell’inadempimento

In una recente pronunzia, il Tribunale della Spezia (sentenza n. 167/2020) ha considerato come anche per la locazione ad uso non abitativo, ancorché non si possa fare riferimento alla procedura del termine di grazia, la domanda di risoluzione del contratto di locazione debba essere considerata e valutata alla stregua della gravità dell’inadempimento ex art. 1455 c.c. (nel caso di specie l’inadempimento era dovuto alla chiusura per il periodo dell’emergenza pandemica).

Infatti, il Giudice considerando che la locazione era risalente nel tempo, che la morosità non era rilevante trattandosi soltanto di tre canoni relativi al periodo nel quale il Professionista aveva dovuto chiudere lo studio (odontoiatra) ed il pagamento dei canoni e delle spese legali fosse avvenuto dopo la notifica dell’atto di intimazione di sfratto, ha ritenuto di non accogliere la domanda e di non pronunziare la risoluzione per inadempimento del contratto di locazione non perché non sussistesse un inadempimento ma perché questo, considerati anche i canoni di buona fede e di correttezza, non poteva essere ritenuto grave.

Speriamo che questa sentenza non rimanga un caso isolato.

Dubbi di legittimità

Com’è noto, l’art. 54 ter del decreto legge del 17 marzo 2020 n. 18 introduceva la sospensione della durata dei sei mesi dei procedimenti di pignoramento immobiliare, ai fini di contenere gli effetti dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, termine che veniva poi modificato con il termine indicato sino al 31 dicembre 2020, con la legge di conversione n. 27 del 24 aprile 2020.

Com’è, altresì, noto questa disposizione è stata modificata, da ultimo dall’art. 13, comma 14, del decreto legge 31 dicembre 2020 n. 183, non ancora convertito in legge, con la sospensione prevista sino al 30 Giugno 2021.

Ora, considerato che siamo già alla previsione della seconda sospensione, riguardante le procedure esecutive che abbiano ad oggetto immobili adibiti a prima casa dell’esecutato, alcuni tribunali hanno sollevato eccezioni di costituzionalità di questa disposizione; infatti, sia il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, con ordinanza del 13/01/2021, sia il Tribunale di Rovigo, con ordinanza del 15/01/2021 hanno ritenuto di rimettere alla Corte Costituzionale il controllo di legittimità costituzionale di questa disposizione in relazione agli articoli 3, 24, 47, 111 e 117 Cost.

Attendiamo, quindi, la decisione della Corte Costituzionale in merito a questa difficile situazione che ha notevoli risvolti sia di natura economica che sociale.

L’inadempimento contrattuale.

Siccome la questione dell’inadempimento, nel periodo di chiusura previsto per l’emergenza pandemica, si è presentata per il tema della locazione commerciale, così come per quanto riguarda i contratti di somministrazione, si forniscono alcune indicazioni che potrebbero essere utili.

Innanzi tutto, la prima qualificazione rispetto al mancato pagamento di canoni o fatture, nel periodo di chiusura per il rispetto della normativa vigente, potrebbe essere quella dell’impossibilità sopravvenuta temporanea, per una causa non imputabile al debitore, ai sensi del secondo comma dell’art. 1256 c.c..

In questo senso l’evento dell’emergenza epidemiologica potrebbe essere ritenuto riconducibile ad una causa di forza maggiore che, com’è noto, rappresenta una causa di non imputabilità di inadempimento.

In secondo luogo, si potrà considerare anche quanto espressamente previsto dall’art. 91 del d. l. 18/2020, convertito nella legge n. 27/2020, il quale ha previsto l’integrazione dell’art. 3 del d. l. 6/2020 introducendo il comma 6 bis, ossia che: “Il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti.”.

Però, non v’è dubbio alcuno che queste qualificazioni ed interpretazioni debbano essere considerate valutando sia il contratto de quo che il presunto inadempimento, perché qualora l’inadempimento riguardi questo periodo di chiusura forzata, dettato dall’emergenza epidemiologica, si potranno trovare argomenti atti a convincere non soltanto l’altra parte contrattuale ma, con tutta evidenza, anche un Giudice mentre, invece, qualora l’inadempimento riguardi anche periodi antecedenti alla chiusura sarà più complicato trovare un giusto contemperamento degli interessi.

Vessatorietà della clausola penale nel contratto di mediazione.

In una recente pronunzia della Suprema Corte di Cassazione, è stato considerato il tema delle clausole vessatorie nei contratti stipulati tra agenzia di intermediazione immobiliare e clienti.

Nel caso di specie si trattava di una clausola che obbligava il cliente, qualora avesse esercitato il diritto di recesso prima della conclusione dell’affare, a corrispondere una penale pari all’1% del prezzo stabilito per la vendita.

Nel caso de quo, la Corte ha considerato che la clausola possa essere considerata vessatoria, quando: “la clausola del contratto che riservi al mediatore, in caso di recesso anticipato del preponente, una penale commisurata al prezzo di vendita del bene, indipendentemente dall’attività di ricerca di acquirenti che il mediatore abbia concretamente svolto per la conclusione dell’affare, non attiene alla determinazione dell’oggetto del contratto o al corrispettivo, nel senso di cui all’art. 34, comma 2, c. cons., e non si sottrae pertanto alla valutazione di vessatorietà, che il giudice è tenuto a compiere d’ufficio, sia al fine di verificare se la clausola determini un significativo squilibrio a carico del consumatore dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, ex art. 33, comma 1, c.cons., sia per il suo potenziale contrasto con l’art. 33, comma 2, lett. e), c. cons.” ed anche quando: “ si presume vessatoria la clausola che consente al professionista di trattenere una somma di denaro versata dal consumatore se quest’ultimo non conclude il contratto o recede da esso, senza prevedere il diritto del consumatore di esigere dal professionista il doppio della somma corrisposta se è quest’ultimo a non concludere il contratto oppure a recedere.” (Cass. Civ. Sent. n. 19565/2020).

E’ importante, quindi, per quanto riguarda il compenso del mediatore, sia nell’ipotesi che non si addivenga ad una conclusione dell’affare che nell’ipotesi di una clausola penale o risarcitoria, considerare se il compenso od altro trovi giustificazione nello svolgimento di una concreta attività rivolta a trovare soggetti terzi interessati alla conclusione dell’affare.

La prescrizione degli interessi.

Siccome recentemente mi è stata sollevata nuovamente una eccezione di prescrizione quinquennale (ex art. 2948 n. 4) c.c.) relativamente agli interessi conteggiati ex D. Lgs. n. 231/2002, sono a chiarire la posizione dello studio, suffragata dall’accoglimento del motivo dell’appello proposto in una recente pronunzia della Corte d’Appello.

L’eccezione formulata da controparte riguardava il fatto che gli interessi moratori richiesti risultassero dovuti soltanto nei limiti di quelli non prescritti ai sensi dell’art. 2948 n. 4 c.c., atteso che la norma si riferisce genericamente a “gli interessi” e, pertanto, appariva applicabile anche in relazione agli interessi moratori previsti dal D. Lgs. 231/2002.

Atteso come il criterio di periodicità degli interessi non sussista per gli interessi moratori, previsti per il ritardo nel pagamento del prezzo in ambito commerciale, la Corte d’appello ha ribadito l’orientamento della Cassazione, e di attenta giurisprudenza di merito, ed ha ritenuto non applicabile la prescrizione quinquennale ex art. 2948 n. 4) c.c. ma la prescrizione decennale come eccepito da questo studio.

Nuovo orientamento in materia di mediazione nell’opposizione a decreto ingiuntivo

La Suprema Corte di Cassazione ha recentemente mutato il proprio orientamento per quanto riguarda il procedimento di mediazione nel corso del procedimento dell’opposizione a decreto ingiuntivo (cfr. Cass. Civ., SSUU, sent. n. 19596/2020).

Com’è noto il procedimento di mediazione è escluso per il procedimento monitorio mentre, invece, deve essere intrapreso per le materie obbligatorie nel procedimento di opposizione immediatamente dopo la pronuncia o di concessione o di sospensione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto.

Nel silenzio della legge, atteso che la normativa fa riferimento alle parti senza indicare quale delle due è onerata dalla instaurazione del procedimento della mediazione, il precedente orientamento (Cass. Civ., sent. n. 24629/2015) riferiva il principio che nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo l’onere di esperire il tentativo obbligatorio di mediazione era da porsi a carico della parte opponente.

Questa recente sentenza ha invece indicato che sia più confacente alla normativa de quo (D. Lgs. 28/2010), tenendo conto dei rilievi di natura costituzionale, che l’onere di attivarsi per promuovere la mediazione debba essere posto a carico del creditore che è l’opposto (e non del debitore che è, invece, l’opponente).

La Corte ha, perciò, enunciato il seguente principio di diritto:

<<Nelle controversie soggette a mediazione obbligatoria ai sensi del D. Lgs. n. 28 del 2010, art. 5, comma 1-bis, i cui giudizi vengano introdotti con un decreto ingiuntivo, una volta instaurato il relativo giudizio di opposizione e decise le istanze di concessione o sospensione della provvisoria esecuzione del decreto, l’onere di promuovere la procedura di mediazione è a carico della parte opposta; ne consegue che, ove essa non si attivi, alla pronuncia di improcedibilità di cui al citato comma 1-bis conseguirà la revoca del decreto ingiuntivo.>>.

Diritto alla provvigione del mediatore

Un altro aspetto del quale si è occupato lo Studio, dopo aver chiesto l’accertamento della sussistenza di un rapporto di mediazione, è dimostrare che fosse maturato anche il diritto di provvigione del mediatore.

Com’è noto, l’art. 1755 c.c. prevede che: << Il mediatore ha diritto alla provvigione da ciascuna delle parti, se l’affare
è concluso per effetto del suo intervento. >>.

A ciò aggiungasi come, ai sensi dell’art. 1754 c.c., si qualifica mediatore colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare,
risultando idonea al fine del riconoscimento del diritto alla provvigione anche l’esplicazione della semplice attività consistente nella ricerca ed indicazione
dell’altro contraente o nella segnalazione dell’affare, non rilevando, a tale scopo, che il mediatore debba partecipare attivamente anche alle successive trattative.

In altri termini, per il diritto del mediatore al compenso, non è determinante un suo intervento in tutte le fasi delle trattative sino all’accordo definitivo, essendo sufficiente che la conclusione dell’affare possa ricollegarsi all’opera da lui svolta per l’avvicinamento dei contraenti, con la conseguenza che anche la mera attività indirizzata al reperimento dell’altro contraente ovvero all’indicazione specifica dell’affare legittima il diritto alla provvigione, sempre che, però, tale attività costituisca il risultato utile della condotta posta in essere dal mediatore stesso e poi valorizzata dalle parti.

Sul punto si è espressa la giurisprudenza di legittimità, nel senso che: << Vi è diritto al compenso da parte del mediatore tutte le volte che lo stesso abbia messo in contatto le parti sulla base di un modulo portante una compiuta offerta d’acquisto. >> (cfr. Cass. Civ., sez. VI, 16/06/2015 n. 12428).

Sulla scorta della previsione normativa, dell’interpretazione giurisprudenziale e delle prove fornite dallo Studio si è potuto dimostrare come fosse anche maturato il diritto alla provvigione.